26 Novembre 2015

Istanbul

Due mani di donna, una piccola tazza bianca nella sabbia incandescente, una schiuma marrone scuro che ribolle. È già sera a Fener, uno dei quartieri piú antichi di Istanbul. Il giallo dei limoni e il nero disegnano un fiore luccicante nella padella del venditore di cozze ripiene. Due cani sopra un vecchio divano rossastro aspettano Ahmed che si ritira con il suo carretto carico di cianfrusaglie.

I bambini giocano per la strada, saltano sui materassi, tendono fili che i passanti devono scavalcare, si rincorrono, giocano a pallone, scivolano lungo le discese più ripide su slitte di cartone.

Al terzo piano di una casa costruita come un camino, una finestra si apre sul cielo e dalla terrazza entrano le grida solitarie dei gabbiani, che salgono dalle rive del Corno d’Oro verso la collina.

Edmondo ora mette in rodine i suoi appunti, seduto al tavolo di un caffè che confina con il mare, nel quartiere di Ortakoy affacciato sul Bosforo e battuto dal vento. Le onde s’infrangono vicine e spruzzano polvere argentata, nuvole di gabbiani inseguono i traghetti e le navi cargo avanzano lente come elefanti. Entrano là in fondo all’inizio del Bosforo, passano indifferenti davanti alla residenza del sultano, superano il Corno d’oro e procedono maestose verso Oriente sorvegliate dalle vertigini dell’altissimo ponte che collega l’Europa all’Asia e dall’abbagliante eleganza della moschea. Alcune hanno il color della ruggine e torri bianche a poppa, da cui può salire un pennacchio di fumo, altre sono sovraccariche di container, in certe svettano le gru, in altre si riconosce la sagoma di una lunga cisterna.

Edmondo l’aveva già vista tanti anni prima, la moschea di Oratkoy che confina con il mare. Era nella scatola di cartoline in bianco e nero degli anni Venti che il nonno conservava come souvenir di una missione a Istanbul insieme a francesi e inglesi per mettere pace fra Greci e Turchi dopo l’incendio di Smirne. Era radiotelegrafista sull’incrociatore corazzato Carlo Alberto della Regia Marina. Chissà se nei mesi trascorsi fra il Bosforo e il mar Egeo, passeggiò per le strade di Ortakoy o se la vide solo dal ponte della nave.

Laila insegna italiano in una scuola turca, ha occhi grandi come le donne dipinte sugli antichi vasi greci, domenica mattina aspettava l’autobus 50 alla fermata di Fener. Dopo qualche suggerimento sugli autobus che vanno in centro, ha detto: “Istanbul è come una stanza in disordine, in cui ognuno può ritrovare quel che ha perduto, una stanza dove prima o poi le cose si mettono a posto”.

Una stanza con le trombe azzurre e oro dei grammofoni appoggiate come mazzi di fiori sugli scaffali. Porta numero 12 del bazar, poi prosegui dritto cinquanta metri e lo trovi sulla sinistra: il maestro dei grammofoni ascolta un’aria italiana, concentrato come un monaco durante il vespro, con una sigaretta di cui fuma anche il filtro. Non abbandona il suo mondo per soddisfare le curiositá di sfaccendati turisti, vive tra le voci dei defunti, quelle dei vinili degli anni trenta, ascolta una  canzone napoletana: “… Solo una bianca conchiglia con l’eco del mare che dice  all’orecchio sommesso non devi partire … io parto ma lascio il mio cuore sul Vomero e a Marechiare … sognando la notte d’amore che non tornerà …”. Il vinile gira scavato da una puntina che l’uomo dei grammofoni ogni tanto sfiora per capire se ha fatto un buon lavoro. Forse sul grande schermo dell’immaginazione vede ancora la sala da ballo dove quella voce è diventata tempo, ricordo, sguardo, storia d’amore. Forse anche lui protegge un amore che non è riuscito a dimenticare, lo mette da parte, lo gira piano con la manovella, poi lo ferma, segue la musica e spia i segreti ingranaggi, i fruscii, i sussurri che accompagnano il ballo della vita.

Non lontano dal maestro dei grammofoni, in una corte interna, al termine di una scaletta, in un studio-magazzino-negozio di venti metri quadrati Levant e il suo socio vendono i tappeti fabbricati dai nomadi che abitano le montagne ai confini fra Turchia, Iran, Iraq e Siria. Tappeti irregolari, con pochi disegni, le corna dei bufali, fiori, foglie stilizzate, tappeti che i nomadi usano come coperta o sacco per raccogliere le loro cose e spostarsi da un luogo all’altro. Anche Levant si definisce un nomade, ha vissuto in molte case a Istanbul, è attaccato a questa città,  dice che non c’è un altro luogo dove potrebbe abitare: “Qui ognuno esiste, ognuno trova il suo spazio, per piccolo, grande, strano, centrale, periferico, che sia … E per quanto riguarda la religione, io, grazie a Dio, sono ateo … E ricordati che è inutile sedersi a una tavola dove non ti danno da mangiare”. Levant, fra un aforisma e l’altro, racconta storie che sembrano fantastiche, come di quando si è ritrovato nel libro del cantautore Vinicio Capossela Non si muore tutte le mattine. L’aveva conosciuto a un concerto e per tre giorni l’aveva accompagnato alla scoperta di Istanbul. Poi un giorno un’amica gli regala il libro e a pagina 250 incontra il suo ritratto: “Aveva i capelli tirati indietro da unno e la barba rada da transilvano. Era un filosofo, un ciarlatano, un pazzo, esperto di ogni cosa, un appassionato della storia. Lavorava a ore nel bazar e si trapazzava le nazioni occidentali e i quartieri di Stanbul”. Racconta anche di una notte avventurosa, quando su mandato di un collezionista americano, passò il confine siriano e si ritrovò in una tenda a trattare l’acquisto di reperti archeologici per 300.000 dollari circondato da guerriglieri con i mitra spianati. E racconta anche che, siccome conosce anche il russo, è stato reporter per una tv di Mosca durante le proteste contro il governo nel 2013. E poi delle curiosità: la canapa non è solo un’ottima fibra per i vestiti ma anche per costruire strade; alcuni mercanti ebrei usano strofinare le banconote del primo incasso della giornata sotto il mento, affinché cresca come la barba; una delle più famose guide di Istanbul è stata scritta da Edmondo De Amicis, s’intitola Costantinopoli e a proposito del bazar scrive: “Questi mercanti d’un po’ di ogni cosa , furbacchioni matricolati, si sottintende, e poliglotti come i loro fratelli di banda, usano nel tentare la gente un certo procedimento drammatico che diverte assai, e che di rado fallisce allo scopo dell’attore. Le loro botteghe son quasi tutte stanzuccie oscure piene di casse e d’armadi, dove bisogna accendere il lume e c’è appena posto da rigirarsi. Dopo avervi fatto vedere qualche vecchio stipetto intarsiato d’avorio e di madreperla, qualche porcellana  chinese, qualche vaso del Giappone, il mercante vi dice che ha qualcosa di speciale per voi, tira fuori un cassetto e vi rovescia sulla tavola un mucchio di ninnoli: un ventaglio di penne di pavone, per esempio, un braccialetto di vecchie monete turche, un cuscinetto di pelo di cammello colla cifra del sultano ricamata in oro, uno specchietto persiano dipinto d’una scena del libro di paradiso, una spatola di tartaruga con cui i turchi mangiano la composta di ciliegie, un vecchio gran cordone dell’ordine di Osmaniè. Non c’è nulla che vi piaccia? Rovescia un altro cassetto…”

Vicino al bazar, in piazza Beyazit, la piazza dell’Università, una donna chiede la carità tenendo in grembo una bambina che sembra morta, pallida, immobile. L’hanno narcotizzata per impietosire i passanti. Non è raro nelle zone centrali incontrare bambini che mendicano seminudi e intontiti da qualche droga.

Uno di loro, una sera a Eminönü, era accovacciato a torso nudo lungo un marciapiede. Una famiglia si è fermata e il padre ha chiesto al figlio di togliersi la camicia per donarla allo sfortunato coetaneo.

Le strade a Istanbul non si attraversano, si saltano, ogni volta è una specie di roulette russa. Quando l’autobus vi lascia a una pensilina, di solito non ci sono strisce pedonali o semafori nelle vicinanze, ma macchine e pullman che sfrecciano veloci davanti a voi. O vi buttate da soli, ma rischiate parecchio, oppure aspettate che ci siano altre due o tre persone pronte a buttarsi. In quest’ultimo caso, di solito si riesce ad arrivare dall’altra parte. Alla fine diventa un gioco: vincete se non vi investono.

Tra le fermate più surreali, più che una fermata una camera a gas, quella di piazza Taksim: l’autobus vi scarica in un trafficatissimo tunnel sotterraneo dal quale è bene uscire quanto prima. Meglio lo stop di Eminönü, a due passi dal ponte di Galata prossimo ai barconi animati da cuochi vocianti che sfornano panini ripieni di verdure e pesce grigliato: la fila di pendolari e turisti low cost scorre veloce.

L’altra notte alle quattro e trenta, nella mansarda di Fener, un aereo è apparso nella finestra che ritaglia il cielo stellato sopra la testa di Edmondo: luci bianche e rosse e un rumore assordante. Poi ne sono arrivati altri, alcuni grandi, altri più piccoli. Passavano così vicini che sembrava di poterci salire su. Una processione di jet nella notte di Istanbul, un corteo di lanterne su un tappeto di nuvole bianche e stelle. Dicono sia stata colpa del vento, quando cambia direzione, gli aerei scelgono un’altra rotta di decollo.

Sulla collina di fronte le luci del Pera Hotel.Lo scrivono in molti ed è vero: nei saloni di questo albergo si torna indietro nel tempo, fra i ritratti in bianco e nero di Hemingway, Agatha Christie, Greta Garbo; dorature, velluti rossi, luci soffuse, raccontano di un tempo che non vivrete mai, forse l’avete sognato, quel tempo aristocratico, cosmopolita, elitario, quello dei film in bianco e nero, avventure, amori romantici, belle donne e uomini dal fascino misterioso. C’è ancora la portantina con cui a fine Ottocento si trasportavano gli illustri ospiti che arrivavano con l’Orient Express alla stazione di Sirkeci, e l’antico ascensore in ferro e legno.

Ecco un altro cargo, laggiù in fondo. Non ci si stancherebbe mai di guardare quelle grandi navi che avanzano come elefanti, di chiedersi come trascorre il tempo in quelle gabbie lente, e chi c’è a casa ad aspettare quegli uomini compagni del mare, dei gabbiani e dei lavori solitari.

Un affresco del Trecento può avere la forza dell’Urlo di Munch, come l’anastasis nella chiesa di San Salvatore in Chora. L’affresco appare dopo i particolareggiati racconti dei famosi mosaici. Una scena che lascia a bocca aperta: potente un Cristo afferra per le mani Adamo ed Eva per tirarli fuori dalle tombe, mentre sotto i suoi piedi si spalancano le porte dell’inferno. Ma non è il solo affresco che trascina il visitatore in una lanterna magica di visioni: guardando verso l’altro s’incontrano un paradiso a forma di lumaca, quattro santi teologi intenti a scrivere, gli angeli che pesano le anime sulla bilancia e la battaglia contro gli assiri a Gerusalemme.

Un’altra faccia potente, questa volta non di un affresco, era seduta in una delle mille kebab house di questa città, quella dietro la stazione di Sirkeci. Fra i tavolini a stretto contatto con i tubi di scappamento, Alì mangia da solo, ha quasi settant’anni, sei figli, è nato in un piccolo villaggio fra le montagne nel sud della Libia. Il suo volto sembra la corteccia di un ulivo millenario, i suoi occhi non sono tristi, ma guardano spesso lontano, oltre, come se aspettasse qualcosa d’importante e poi lo vedesse scomparire. Vent’anni fa ha lavorato in Italia, Messina, Napoli, Venezia, a Istanbul sorvegliava fino a qualche giorno fa le notti dei turisti all’Hotel Gold. Domani salirà su un aereo per tornare nel suo villaggio, là tra le montagne. Sorride quando ci salutiamo, poi riaccende una sigaretta, una delle tante, e lo sguardo torna a cercare là in fondo, dove arrivano le navi, quelle piccole, che poi diventano grandi e poi se ne vanno.

A Fener, fino agli anni Venti abitavano i greci, vicino agli ebrei del quartiere di Balat e ai mussulmani del quartiere di Fatih, poi sono quasi scomparsi, è rimasto l’imponente liceo ortodosso, verticale come i monasteri del monte Athos, con i suoi mattoni color tramonto, e il patriarcato ortodosso, con la chiesa di San Giorgio che conserva fra le sue reliquie un pezzo della colonna alla quale fu legato e flagellato dai romani Gesù.

Murat Efe assomiglia straordinariamente a Tiziano Terzani, i capelli raccolti a coda gli zigomi sporgenti, gli occhi grandi a mandorla, ma non scrive per un giornale. Nel suo laboratorio di scenografia e attrezzeria teatrale , lungo la strada bassa che collega Fener a Balat,  costruisce di tutto. In vetrina sono esposte ali d’angelo, spade, armature rinascimentali e ottomane, elmi, clave scudi, pennacchi,  cannocchiali. Dalle sue mani e da quelle dei suoi collaboratori nascono anche animali fantastici, maschere, le cinture con la borsa dei pennelli dei miniaturisti turchi e persiani, i monocoli degli astronomi del sultano, e telescopi, astrolabi, sestanti, orologi, mappamondi, anelli, specchi, gioielli, costumi di circassi, zingari , negromanti persiani, ladroni del deserto e dei leggendari meddah, i cantastorie che attraversavano i paesi raccontando di amori e guerre. Due passi più in là un vecchio hamam fa venire in mente il film di Ozpetek Bagno turco, quello con Gassmann. Un breve testo in inglese, incorniciato e appeso all’ingresso, spiega che il bagno turco Tatha Minare è stato costruito per il gran visir Koka Ragip Mehmed Pasha nel Settecento, che le dieci colonne in legno, la balconata, il lucernario e le stanze per riposarsi sono in castagno, le cupole, le fontane e i tavoli in marmo pregiato, e oltre atepidarium e calidarium  una stanzetta chiamata “bagno armeno”,  nel quale dovevano passare, secondo la tradizione, gli uomini nei giorni precedenti il matrimonio. Più avanti, una vetrina di dolci da Mille e una notte; l’Ada Restaurant gestito da Alaaddin Demir, che si preoccupa sempre di infilare nella borsetta delle porzioni da asporto le posate in plastica e il pane; un austero fruttivendolo che pesa la merce  con la precisione di un farmacista; il panettiere all’angolo che ti regala sempre qualche biscotto e ti fa sentire meglio di quanto tu non possa sentirti in qualsiasi supermercato.

Edmondo ordina un altro elma chai, un tè alla mela, lütfen, per favore, e lo ordina in lingua turca per cercare di appartenere di più al luogo, per non sentirsi troppo straniero. Il bicchiere ha la forma di una clessidra, di una gonna a palloncino, di un fiore. Il vassoio coperto in alpaca ha la forma di un carapace, e l’impugnatura in pelle è consumata. Sarebbe bello averne uno a casa e metterci dentro delle penne vecchie, di quelle che non funzionano più, ma che hanno scritto un sacco di cartoline, firmato documenti, composto lettere d’amore, siglato contratti, riempito quaderni e agende, seminato parole che in qualche soffitta, in qualche cantina, in qualche libro, esistono ancora insieme ad altre parole.

Il gesto è di quelli antichi, due mani che battono i palmi, prima verso il basso e poi verso l’alto, e infine si stringono per confermare che l’accordo è stato raggiunto. Acquirente e venditore sono alla fine d’accordo sul prezzo del montone, che viene trascinato fuori dal recinto e poi sgozzato su un  pavimento di piastrelle. Vicino all’acquedotto di Valente, nel quartiere di Fatih, uno dei più conservatori di Istanbul, la tradizione si rispetta e succede di imbattersi in montagnole di teste di montone decapitate per la festa musulmana di Bayram, la festa del sacrificio, in memoria di quello di Abramo. Corrisponde in qualche modo alla nostra Pasqua, quando gli agnelli non se la passano meglio dei montoni.

Un altro gesto ricordò  a Edmondo invece quel che accade  lungo il fiume Lete, o dell’Oblio, nel poema di Ariosto. Tra i mille mestieri inventati per tirare a campare, c’è anche quello dei “minatori di rifiuti” che setacciano i cassonetti, i sacchetti, i cumuli di immondizia, alla ricerca di vecchie carabattole, carta, libri, riviste, metallo. Malek è alto quanto un giocatore di pallacanestro, ha la barba e lo sguardo fiero. Si china con facilità nel cassonetto armato di un gancio in fil di ferro con il quale apre i sacchetti e seleziona quel che gli pare vendibile. Tra le mani gli capita una foto in bianco e nero degli anni sessanta: sulla tovaglia quel che rimane di tre torte di compleanno, un vassoio di mele, un pacchetto di sigarette e un accendino d’argento; intorno al tavolo, le famiglie di due fratelli: i due uomini si assomigliano molto, quello di sinistra ha due figli di circa sette e dieci anni, quello al centro un bambino che ne avrà due; le signore sono vestite di scuro e sorridono; sulla destra, probabilmente il padre che non guarda in macchina, accanto a lui altre due signore, una delle quali, quella con il vestito chiaro e le mani giunte sulle ginocchia, assomiglia ai due fratelli. Dal soffitto pendono dei festoni e sullo sfondo delle tende bianche non lasciano intravedere che cosa ci sia oltre la finestra o il balcone. Malek la guarda un attimo e poi la ributta fra gli scarti, come il vecchio di cui racconta Ariosto nel Viaggio di Astolfo sulla luna: 
”Il vecchio che getta nel fiume tutti quei nomi, di cui solo pochi rimane Fama, è il Tempo. E, come i cigni che portano i nomi al tempio, così sulla terra sono i poeti, rari come i cigni, a togliere dall’oblio gli uomini degni”. In fondo la speranza è quella di essere ricordati, di avere un po’ di fama, ma forse si tratta che di una fantasia. In fondo le cose che ci rendono davvero felici sono semplici e per niente complicate o famose, come l’aria della mattina a marzo, una nevicata, uno sguardo, quel caffé inatteso, eppure…

Questa sera, mentre le luci nelle navi cargo brilleranno verso Oriente, Ajda canterà senza tristezza, con gli occhi sorridenti e la voce della libertà. Il suo vestito risplenderà di paillettes blu con al centro un’ancora d’argento.

Il cielo muta in continuazione a Ortakoy mentre Edmondo scrive a un soffio dal mare. Il cielo è un bazar di nuvole che a volte apre i suoi passaggi al sole, altre volte chiude i suoi ingressi con il grigioazzurro, e quella luce opaca, come nebbia trasparente.

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    One Comment

  • Isabella Gianelloni 13 Gennaio 2016
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    Mario, continua il racconto e facciamone un best seller.
    Pennellate stupende, bagliori e sorrisi un po' decadenti. Bellissimo.

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