1 Febbraio 2017

Una vita da giramondo

Mauritania, El Zeh, nomads

 

 

 

 

 

 

 

“In Alaska la guida Inuit mi raggiunse a Fort Yukon e mi disse: ‘Partiamo domattina, hai già guidato la motoslitta vero? Preparerò dei panini e mi raccomando copriti con le pellicce, questo abbigliamento da montanaro fa ridere’.

La temperatura vicino al Circolo Polare Artico in dicembre è intorno ai meno quaranta. L’indiano mi consegnò anche delle buste anticongelamento, perché se ti si bagnano i piedi sei finito. Viaggiammo per quattro giorni e 250 chilometri, avevamo cinque ore di luce. Correva come un pazzo e tornava indietro solo quando si accorgeva che non riuscivo a stargli dietro. Abbiamo seguito le piste degli orsi e ci riscaldavamo con la legna raccolta lungo la strada. Non sono mai andato in bagno e il menu prevedeva solo carne d’alce abbrustolita. Poi sono rimasto per tre giorni con il papà dell’Inuit, un pazzo scatenato che viveva completamente isolato in una casa sotterranea e cacciava gli animali da pelliccia con trappole artigianali.”

Nella sua casa di San Trovaso, in provincia di Treviso, Aldo Pavan, fotografo, giornalista, videomaker, racconta una delle tante avventure della sua vita da giramondo. Sul tavolino, davanti al caminetto acceso, una copia di Internazionale, due tazze di caffeè equosoldiale del Perù e il libro Nessuno al mondo di Hisham Matar. “Iniziai la mia carriera negli anni Ottanta, con la cartellina di foto sottobraccio raggiungevo Milano e mi presentavo ai direttori della Domenica del Corriere, di Epoca, dell’Europeo. Allora si poteva fare. Nel ‘91 fui l’unico a fotografare la statua di Stalin  abbattuta da una gru davanti all’hotel Dajti. La polizia mi vide e m’inseguì, ma riuscii a far perdere le mie tracce.

A Durazzo, sempre in quegli anni, per poco non mi fanno fuori. Ero in corteo con migliaia di migranti quando i militari cominciarono a sparare ad altezza d’uomo. Sentii i calcinacci cadere sui miei capelli, poi salii  nello stabile che avevo alle spalle,  scattai un paio di foto e raccolsi le pallottole. Altre esperienze al limite furono i reportage dal Kosovo, le missioni con gli sloveni che si organizzavano per l’autodifesa nei boschi con archi e balestre, e quella volta a Pristina quando un gruppo di albanesi mi prelevò dall’albergo dei giornalisti. Mi portarono in giro per case e villaggi sconosciuti a fotografare le veglie funebri. Poi un giorno decisi che volevo veder crescere mio figlio Marco e mi dedicai al settore turistico e al sociale: Gulliver, Dove, Rai e diverse collaborazioni con enti no profit e ong. Da qualche anno mi segue anche Marisa, mia moglie, e qualche volta Marco che ora è a Beirut e lavora per Fabrica.”

In questi giorni Aldo e sua moglie aspettano la neve per completare due documentari per Geo, uno a San Vito di Marebbe e l’altro nel parco del Triglav  in Slovenia. A settembre erano in Buthan per un servizio sul Pif, il Prodotto interno della felicità, e a ottobre a Sao Tomé e Principe per raccontare la storia del cacao. Sul tavolino davanti al fuoco ora ci sono anche i libri di Aldo: La via dell’incenso, Il Gange, Il Nilo, il Fiume giallo, Birmania. S’inizia a parlare di Africa, del reportage sui pirati somali; del documentario girato per la ong Bambini del deserto ad Agadez in Niger,  dove i migranti di Mali, Senegal, Nigeria, vivono in baracche di lamiera prima di proseguire per la Libia stipati come bestie nei camion. “Per un’altra ong, continua Aldo mentre il fuoco del camino diventa più intenso, abbiamo trascorso due settimane nel deserto della Mauritania seguendo la pista carovaniera che tocca città medievali conosciute anche come le ‘biblioteche del deserto’, perché conservano manoscritti del decimo secolo dopo Cristo. Sembrava tutto tranquillo, ma in aeroporto la polizia ci arrestò e iniziò a interrogarci. La guida mauritana, con la quale avevo avuto delle incomprensioni, ci aveva denunciato accusandoci di aver fotografato dei soggetti proibiti. L’interrogatorio durava da un’ora, l’aereo stava per partire. A un certo punto dissi che se il problema erano le foto, si potevano tenere il computer con tutte le immagini. Accettarono la proposta e per un pelo partimmo. In cabina ordinai due champagne e toccai la tasca interna del giubbotto, dove metto sempre l’hard disk esterno con una copia del reportage.”

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