Scriveva Susan Sontag: “I manifesti ci danno una visione portatile del mondo. Un manifesto è come una miniatura di un fatto: un trofeo culturale”. I carteles prodotti dai grafici cubani dopo la rivoluzione del 1959 sono forse tra le espressioni più alte della visione di un mondo unico. Donde le buscaste? Estas cosas son cosas muy raras!. Quando un habanero gli chiese dove avesse trova- to quei manifesti, Luigino Bardellotto, cinquantatrè anni, una vita fra Veneto e Friuli, capì di essere diventa- to cubano e collezionista. “La prima volta visitai Cuba nel 1998 per vedere, a pochi chilometri dall’Avana, la Finca Vigia, la casa in cui Hemingway scrisse Per chi suona la campana e Il vecchio e il mare. Girai dappertutto e mi accorsi che mancavano molte cose, in particolare le medicine. Fu così che iniziai a collaborare con l’ospedale pediatrico di Remedios portando valigie di farmaci dall’Italia, e nello stesso tempo mi appassionai ai carteles, che rappresentano una straordinaria forma d’arte.”
Ci racconta la sua collezione?
Tra i primi acquisti di carteles mi piace ricordare il Clik di Féliz Beltran (1938) che invitava a risparmiare energia elettrica nelle case e il celebre Che di Antonio Perez Gonzalez (1941), detto Niko, quattro immagini a tre colori ricavate dal famoso ritratto fotografico di Alberto Korda (al secolo A. Díaz Gutiérrez, 1928-2001). La raccolta si compone di oltre 2000 esemplari che risalgono dal 1959 a oggi, divisi per temi politici e culturali: cinema, propaganda, solida- rietà per l’Africa e l’America Latina. In particolare i manifesti dell’Icaic (Instituto Cubano de Arte e Industria Cinematográficos) sono i testimoni di una grafica innovativa, una grafica che a differenza di quella europea o americana non metteva in primo pia- no i ritratti e le scene con gli attori famosi, ma immagini e simboli che rimandavano alla storia del film.
Ci sono delle ragioni dietro a questa scelta?
Ce ne sono diverse. Una è tecnica. Le tipografie erano impegnate nel progetto di democratizzazione e diffusione capillare del libro, mentre il cinema non aveva necessità di produrre grandi quantità di manifesti, l’unico distributore nazionale era l’Icaic. Si optò allora per la serigrafia, una tecnica di stampa artigianale, che era anche più in linea con il desiderio di dare voce all’arte della nascente società socialista. Attraverso la sua produzione e la scelta di grafici di straordinario talento, l’Icaic si è rivelato un vero e proprio laboratorio di libertà creativa. Guidato dal critico del cinema cubano Alfredo Guevara (1925-2013), ha imposto quale unico limite ai suoi collaboratori, quello delle dimensioni: da oltre mezzo secolo i manifesti del cinema cubano misurano 76 × 51 centimetri, dimensioni ridotte per contenere il consumo dei materiali.
Lei collabora con molti musei e con l’iCaiC, qual è la particolarità della sua collezione?
Negli Stati Uniti fior di collezionisti posseggono molti più esemplari di me, ma nessuno si è preoccupato delle fasi preparatorie, dei bozzetti, delle prove di stampa. Credo di aver fatto una scelta diversa, proposta anche alla mostra Hecho de Cuba di Torino, una delle più visitate in Italia nel 2016, voluta e curata da Alberto Barbera (1957), direttore della sezione Cinema della Biennale di Venezia, che non finirò mai di ringraziare per la sua disponibilità e sensibilità. In quell’occasione l’Icaic prestò alcuni manifesti realizzati prima del 1959, simili a quelli europei, mentre oltre ai carteles, io portai una serie di bozzetti preparatori, oggetti molto piccoli (15 × 25 cm), tavole che illustravano l’idea del progetto grafico e che il più delle volte venivano buttate via dopo essere state sottoposte alla commissione artistica per l’approvazione. Di vari manifesti ho rintracciato anche le prove serigrafiche.
La sua si può definire una collezione “pubblica”?
Sì, è un patrimonio che cerco di condividere con istituzioni, privati, studiosi, artisti. Per questo ho creato il Centro Studi Cartel Cuba- no (www.cartelcubano.org) e il relativo sito in rete. Oltre alle collaborazioni e alle mostre già citate, aiuto spesso ricercatori, invio informazioni e immagini a studenti di università italiane ed estere. Steven Heller (1950), un famoso art director americano, ha scoperto per caso il catalogo della mostra Hecho in Cuba e mi ha spedito una delle sue pubblicazioni con dedica. Sono soddisfazioni che mi spronano a continuare la collezione e mettere in cantiere nuovi progetti per far conoscere quelli che io considero grandi artisti.
Può anticiparne qualcuno?
Quest’anno insieme all’amico e art director pordenonese Patrizio De Mattio allestiremo una mostra, nella quale si esporrà una parte della collezione di carteles che riguardano la propaganda politica degli anni Sessanta, mai vista prima. Si potranno scoprire forme di co- municazione che dovevano ottenere i benestare da una commissione molto diversa da quella dell’Icaic: si tratta di esemplari rari, alcuni visti al Centre Pompidou di Parigi, nel 1977. E, sempre con De Mattio, stiamo lavorando a un volume dedicato a Antonio Perez Gonzalez (Niko), uno dei grandi nomi della grafica cubana che oggi vive a Xalapa in Messico. Suo è il primo manifesto che ho comprato all’Avana, Hasta la Victoria Siempre, la famosa icona del Che, di cui posseggo anche il bozzetto. Di questo artista la collezione comprende altri duecento manifesti, che verranno pubblicati nel libro e accompagnati sia da un saggio storico e sia da una lunga intervista ricca di aneddoti e curiosità, raccolti dal 2013 nel corso di una corrispondenza per mail e di incontri personali. Sarà il primo di una serie dedicata ai grafici cubani, al quale seguiranno le biografie di Raul Martinez (1927-1995), Eduardo Munoz Bachs (1937–2001), Raphael Morante (1931), Antonio Reboiro (1935) e Réne Azcuy (1939).
Quali sono i carteles per cui sarebbe disposto a tutto?
La più grande soddisfazione è avere la possibilità di entrare in possesso del bozzetto, del layout e del manifesto finito. Ammirare l’iter completo del lavoro creativo è una sensazione unica. Amo i grafici cubani perché hanno saputo creare vere opere d’arte con pochissimi mezzi a disposizione. La mancanza di carta li costringeva a stampare su pagine di vecchi quotidiani o a usare un solo colore, oppure a mescolare vernici industriali. Raphael Morante, altro grande grafico cubano, mi raccontava che, durante l’embargo (el Bloqueo), arrivava in serigrafia (Taller de serigrafia) con un bozzetto che prevedeva l’impiego di sei o sette colori e si sentiva rispondere “Raphael abbiamo solo due colori, il rosa e il blu”. Morante raggiunse risultati di straordinaria eleganza usando solo il nero su fondo bianco. Sua l’immagine che rielabora una foto molto contrastata di Charlie Chaplin per il manifesto della Cinemateca de Cuba. Attraverso il lavoro di questi uomini si può scoprire l’anima di Cuba, idealisti che hanno fatto la rivoluzione, persone che quando ti raccontano di com’era l’Avana della loro gioventù, trasmettono sensazioni indimenticabili. Il tempo passato con loro, non la collezione, è il patrimonio prezioso che ho raccolto in questi anni.”
I ricordi degli autori
“Uno dei periodi più felici della mia vita è stato quello in cui lavoravo alla realizzazione di manifesti per il cinema; non solo perché mi dava l’opportunità di esprimere tutto ciò che mi appassionava in quel periodo relativamente ai concetti e alle idee che avevo su come avrebbe dovuto essere il disegno in generale ma anche perché avevo la possibilità di usare differenti tecniche di esecuzione, e questo indipendentemente dal fatto che poi avremmo potuto ricorrere a una sola modalità di stampa: in quel caso, la serigrafia.” Rafael Morante
“La penuria di materiali era quasi totale: inventavamo le lame per incidere la carta sulla seta ricorrendo a qualsiasi oggetto utile allo scopo; la stessa cosa accadeva per i colori, che erano il risultato di stranissime misture. Ricordo la prima tiratura di Harakiri, il rosso lo ottenemmo mescolando farina di mais e tintura di mercurio cromo, quello che si usava come antisettico per le ferite.” Antonio Reboiro
“Il manifesto cinematografico è il personaggio principale di questa storia, raccontata dalla memoria, tra le nubi e i trilli delle centinaia di uccelli che adornano la mattina della vita, della nostra vita, e le calde notti del tempo che se ne va”. Antonio Perez Gonzalez (Niko)
L’isola cubana possiede una lunga tradizione nelle diverse tecniche di stampa. È stata la prima nazione al mondo a pub- blicare nel 1917 un’intera rivista (il mensile illustrato Social) in offset: un processo meccanico tra i più utilizzati ancora oggi, nel quale l’immagine è trasferita dalla forma inchiostrata a vari cilindri rivestiti di tessuto gommato e suc- cessivamente al supporto di stampa. Dagli anni quaranta il metodo più diffuso in ambito politico e pubblicitario è quello serigrafico, che verrà adottato anche per i manifesti cinematografici. La procedura prevede la creazione di una matrice stampante, costituita da un telaio, sulla quale si tende un tessuto trattato in modo da permettere all’inchiostro di passare solo sulle parti desiderate e depositare così un colore per volta sul sup- porto cartaceo. La bravura dei tecnici serigrafici consiste nel restituire al meglio il disegno originale, basti pensare che ogni colore necessita di un singolo telaio e di un intero giorno per depo- sitarsi sulla carta. La bassa tiratura – i carteles venivano fatti in media in 200 copie, pochi superavano le 400 – unita alla scarsità di mezzi produttivi, rende ancora più apprezzabile il valore di ogni singola opera.
Mario Anton Orefice, Charta n. 156 – www.novacharta.it
Immagine: Réne Azcuy, Besos robados, 1970