19 Aprile 2020

A Luis Sepùlveda

La voce ti porta a Santiago del Cile, o in un giardino dalle parti di Lucca, nel deserto di Atacama, alla stazione di Ginevra dove un vecchio amico libraio racconta di quella volta che vinse la borsa di studio per frequentare l’università a Mosca e poi finì in Uzbekistan. Siamo rimasti in silenzio ad ascoltarlo il vecchio amico di Pepe Mujica, l’autore della Gabbianella e del gatto che le insegnò a volare, il marito di Carmen che insieme a Marzia è uscita con il sorriso dalla villa dei torturatori. La voce di Luis Sepùlveda ti cattura nelle pause, punge nei cambi di tono, rotola sui verbi italianizzati, ha il colore rosso della sua camicia. “Ho avuto la fortuna di crescere in un quartiere proletario a Santiago del Cile. Colpa del salnitro, migliaia di operai estraevano questo fertilizzante naturale con un lavoro durissimo nel deserto di Atacama. Poi la crisi negli anni Venti, il boom dei fertillizzanti artificiali, e cinquecentomila operai rimasero senza lavoro, tra di loro c’era anche mio nonno, un anarchico. Si spostarono a Santiago e la destra cominciò a spaventare i cittadini, come nella poesia di Kavafis Aspettando i barbari, dicevano che bisognava creare un campo di concentramento per evitare disordini. Ma quello che arrivò fu un proletariato organizzato, umano, solidale, nel quale confluivano anche le esperienze degli anarchici europei sbarcati in Sudamerica per la costruzione del Canale di Panama. Non ci furono disordini ma un quartiere decente, una fabbrica, il football club Unidos vinceremos. Nessuno si sentiva da solo, la solidarietà era un fiore che spuntava ovunque, in un posto così era impossibile non diventare un ribelle, un rosso. A tredici anni ascoltai Pablo Neruda a un comizio, parlava della giovinezza e dell’importanza di iscriversi alla Gioventù comunista. Iniziai la mia carriera politica, mi diedero l’incarico di fondare la sezione della Gioventù comunista del mio quartiere. Quando mio padre, comunista da sempre, scoprì la tessera, mi guardò come non mi aveva mai guardato prima e disse: Sei deciso?, Sì sono deciso. Allora prese il suo fazzoletto rosso e me lo legò al collo. La sede era un vecchio locale in Avenida Magtistat 832, c’era solo un tavolo da ping pong senza la rete. Aprivo la sede tutti i giorni, non veniva nessuno, mi sentivo come un naufrago. Devi fare qualcosa, devi essere creativo mi dicevo. Trovai una rivista russa che parlava della conquista dello spazio, del compagno Gagarin, e con le foto organizzai una mostra fotografica sulla Conquista dell’universo. Due giovani si iscrissero, intitolammo la prima cellula della Gioventù comunista a un partigiano della resistenza francese. A sedici anni mi nominarono dirigente regionale, la cellula nel frattempo era arrivata a duecento iscritti. Era una vita piena di immaginazione e responsabilità collettiva, parlavamo di come sarebbe stato il futuro; i nostri amici andavano a divertirsi, noi il fine settimana facevamo i volontari e aiutavamo le persone in difficoltà. Crollò una diga a nord e noi arrivvammo per primi con le medicine e aiutammo chi era rimasto. Me ricuerdo sul treno del ritorno, el viagio duraba cinche ora, cantando el bella ciao che era parte della nostra historia, parte della nostra tradisione, e che beramente la cantabamo con tutto il cuore e con l’enorme soddisfasione di sabere che che erabamo i figli di una rivolusione ipotetica, erabamo i fratelli di Pavel Korschaliov, un eroe di una historia sovietica, erabamo i figli di tutti i grandi dirgenti della classe oberaia cilena, come Luis Emilio Recavarre, e buono, era una vita bela, che sempre sento è stata la migliore manera di iniziarme in questa formidabile aventura che se chiama bibere. Venendo qui ho visto una casa per anziani, ho immaginato che ci dovrebbe essere una casa per anziani rivoluzionari come il mio amico Pepe Mujica, fino a pochi giorni fa presidente dell’Uruguay. Il Pepe è stato nei Tupamaros, ha subito la tortura si è fatto quattordici anni di carcere, di cui sei in isolamento, poi ha continuato la sua attività politica come sempre. Il primo giorno da presidente è arrivato davanti al palazzo con la sua Volkwagen che ha 270.000 chilometri. Un poliziotto gli ha detto che non poteva parcheggiare lì, allora il Pepe ha risposto che doveva andare al lavoro, Va bene solo cinque minuti, Per la verità, ha detto il Pepe, la Costituzione prevede che devo star qui cinque anni. Poi è andato alla trattoria dove andava ogni giorno e l’ha trovata vuota, Per ragioni di sicurezza, ha detto l’oste, Io voglio fare la fila se non c’è posto ha detto il Pepe, Sono diventato presidente non per i privilegi ma per lavorare per il mio paese. Poi gli hanno offerto cinque piani di palazzo presidenziale, il Pepeha rifiutato, I soldi che servono per mantenere questo palazzo usateli per aprire un liceo, e poi alla mia età è un piacere enorme uscire e fare la pipì in giardino sotto un cielo stellato. Il Pepe è tornato ai suoi libri, ai suoi amici, penso che il suo sia un modo decente di comportarsi con la vita. Per me il primo dovere di un intellettuale è quello di essere un buon cittadino, poi se ha tempo può sedersi alla scrivania e scrivere. La scrittura per me è sempre stata una forma di resistenza a quello che non mi sembrava giusto nella società, una poesia agitativa, un teatro ribelle, una barricata: c’è tanta gente che come me che resiste, che mette una parola, una pietra dietro l’altra, in questa barrricata. Più donne che uomini, penso alle donne che hanno resistito ai torturatori di Villa Grimaldi, la prigione di Pinochet; da quel luogo di orrore sono uscite con un sorriso come mia moglie Carmen e Marzia, alle altre scomparse, buttate nella spazzature, assassinate per non aver detto una parola, mai il nome di una via, di un fiume, di una nuvola.  Anche le favole per bambini le scrivo dal punto di vista del resistente. La Storia della Gabbianella e del Gatto che le insegnò a volare nasce nella biblioteca di Amburgo, dove insieme ai miei figli sfogliavo alcuni libri per ragazzi che sembravano libri per idioti e non per queste persone formidabili che possiedono l’immaginazione allo stato puro, amano un linguaggio senza ambiguità. E la storia della lumaca è nata dalla domanda di un nipotino, la teneva sul palmo della mano, la osservava, e più lui la osservava più io temevo che mi avrebbe chiesto qualcosa a cui non avrei saputo rispondere, a un certo punto mi guardò e disse: Perché è così lenta?

(Testo raccolto nell’incontro con Luis Sepulveda per la presentazione del suo ultimo libro L’avventurosa storia dell’uzbeko muto, edizioni Guanda, Convento di San Francesco, Dedica Festival, Pordenone, 8 marzo 2015, Foto: kontrokultura.it)

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