15 Settembre 2022

In ginocchio – storia di Moussa

Un sogno spezzato lungo una pista di terra e sabbia dalle parti di Sinthiou Garba, nel nord del Senegal verso la Mauritania. Negli occhi di Moussa (Mosè in arabo) oggi c’è un grande dolore che non è solo fisico, c’è una voglia di raccontare l’indicibile, il sogno di tornare  sull’erba, tra le pedate dei difensori e quei segni con le dita, quelle occhiate quando c’è da tirare un calcio di punizione o un calcio d’angolo e sembra un’impresa impossibile. Tra le foto del telefonino i suoi miti, Del Piero, Chiellini, Pirlo, i video delle partite di Champions, ma anche le foto di amici presi a botte dalla polizia mentre cercano di scavalcare le reti di protezione di Ceuta e Melilla e arrivare in Europa.

Un giorno d’agosto lo incontro all’ombra della chiesa Notre Dame de Lourdes, nel quartiere Mers Sultan di Casablanca. Dorme in canonica insieme ad altri migranti subsahariani, compagni di viaggio che arrivano qui disperati dopo settimane di cammino. Ad aiutarli questa parrocchia e le suore di Madre Teresa di Calcutta con il loro furgoncino colorato che distribuisce i pasti agli angoli delle strade. A centinaia dormono  in edifici  abbandonati stracolmi di immondizie o per strada dalle parti della Gare routiere Ouled Ziane.

Lui non ce l’ha fatta, non ci ha nemmeno provato a scalare le barriere alte sette metri di Ceuta e Melilla, o salire su un barcone; è rimasto nel bosco con la febbre e le sue gambe azzoppate.

Ha ventitrè anni, una maglia gialla e i pantaloncini rossi, lo sguardo buono che sprofonda nell’abisso di una speranza già lontana: tornare a giocare.

Il 4 aprile del 2020, dopo un allenamento, corre verso casa in sella una Jakarta rossa 125, quella moto che a volte trasporta un’intera famiglia da un villaggio all’altro. Il cielo è coperto di nuvole che sembrano piramidi di cannoli grigi, non si accorge di nulla, si risveglia nella sabbia con le gambe spaccate. Si sono schiantati contro un un fuoristrada sbucato da chissadove. Il suo amico ha qualche contusione ma lui sanguina dappertutto. L’ambulanza che lo trasporta all’ospedale di Ourossogui dell’ambulanza ha solo il nome, per il resto è un furgoncino grigio con una scritta rossa “ambulance”, con un asse di legno come barella. Fratture multiple al ginocchio sinistro e al femore destro, dicono i medici che chiedono, com’è normale in Senegal e in America, che qualcuno paghi l’intervento. Altrimenti Moussa può anche morire, come muoiono in tanti, in troppi negli ospedali africani.

Per fortuna c’è il vecchio zio Deh, ci pensa lui, si vogliono bene e vivono insieme da tanti anni. Ma nell’ospedale hanno finito il filo al titanio che serve a ricomporre le fratture, e allora prendono il fil di ferro e lo passano tra le ossa come si trattasse delle gambe di un burattino di legno e chiudono tutto. Una bomba di ruggine e batteri che innesca un osteomielite che da un giorno all’altro può portare all’amputazione degli arti. Vive così Moussa, appeso al fil ferro arrugginito che si porta in corpo, imbottito di antibiotici e spray antisettici.

Mi scrive ogni giorno e mi chiede di aiutarlo, l’Italia non ha solo ospedali ma è anche la patria delle sue squadre preferite, Juventus in testa insieme alla nazionale di Buffon e company. Ha sempre con sé il suo tesserino di giocatore della Federation Senegalaise de Football e aspetta una risposta dagli spalti dell’umanità, che può aiutare Moussa con un progetto di cura e accoglienza scrivendo a padre Renato Zilio: oltrefrontiere@gmail.com,  wa +393314782628

 

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