20 Settembre 2022

Indagini su Piero della Francesca con Carlo Ginzburg

Un capello bianco che si arriccia come lo scorrere dei pensieri, e quei due occhialoni con le lenti spesse che hanno scrutato milioni di pagine, una vita dedicata allo studio, un’intelligenza non addomesticabile. Carlo Ginzburg per chi ha avuto la fortuna di incontrare i suoi scritti è un maestro, uno di quei punti di riferimento fondamentali per proseguire il cammino quando ci si smarrisce in qualche selva oscura. Tra questi,  “Miti emblemi spie” con  l’indimenticabile  saggio”Spie, Radici di un paradigma indiziario”  che collega l’italiano Giovanni Morelli al  Freud del Mosè di Michelangelo(1914) o di  Psicopatologia della vita quotidiana(1901), e allo Sherlock Holmes dell’Avventura della scatola di cartone: “I musei, diceva Morelli, sono pieni di quadri attribuiti in maniera inesatta. Ma restituire ogni quadro al suo vero autore è difficile: molto spesso ci si trova di fronte a opere non firmate, magari ridipinte o in cattivo stato di conservazione. In questa situazione è indispensabile poter distinguere gli originali dalle copie. Per far questo, però non bisogna basarsi, come si fa di solito, sui caratteri più appariscenti, e perciò più facilmente imitabili, dei quadri: gli occhi alzati al cielo dei personaggi di Perugino, il sorriso di quelli di Leonardo, e così via. Bisogna invece esaminare  i particolari più trascurabili, e meno influenzati  dalle caratteristiche  della  scuola a cui il pittore apparteneva: i lobi delle orecchie, le unghie, la forma delle dita delle mani e dei piedi. La personalità va cercata là dove lo sforzo personale è meno intenso (…) Con questo metodo Morelli propose decine e decine di nuove attribuzioni in alcuni dei principali musei d’Europa. Spesso si trattava  di attribuzioni sensazionali: in una Venere sdraiataconservata alla galleria di Dresda, che passava per una copia di mano del Sassoferrato di un dipinto perduto di Tiziano, Morelli identificò una delle pochissime opere sicuramente autografe di Giorgione.”

Pordenonelegge, domenica scorsa, Carlo Ginzburg  ha raccontato dal palco del cinema Capitol delle sue “Indagini su Piero”, pubblicate nel 1981 da Einaudi come primo volume della collana Microstorie, e oggi ripubblicate da Adelphi con una nuova prefazione dell’autore.Al centro dell’inchiesta di Ginzburg-Holmes la datazione della Flagellazionedi Piero della Francesca, oggi esposta a Urbino alla Galleria nazionale delle Marche, che Piero Longhi,  indiscussa autorità novecentesca nell’ambito della storia dell’arte, fa risalire a prima degli affreschi di Arezzo eseguiti da Piero tra il 1452 e il 1466 nella chiesa di San Francesco su commissione della famiglia Bacci. Ginzburg, dopo una ricerca aggrappata a “una parete rocciosa di sesto grado, liscia e senza appigli, con solo qualche chiodo qua e là”, è riuscito a trovare una nuova nuova e a datare il dipinto dopo il soggiorno romano dell’artista, che è del 1458.

Un’osservazione morelliana, l’individuazione di un dettaglio apparentemente secondario, si è rivelata decisiva: la colonna a cui è legato il Cristo della Flagellazioneè una riproduzione perfetta in scala 1 a 10 di quella conosciuta come mensura Christidella basilica di San Giovanni in Laterano, che Piero poteva aver visto solo in occasione della sua trasferta capitolina. La ricerca della verità implica sempre l’individuazione di chiodi lungo la parete da esplorare, di appigli certi senza i quali si apre la voragine delle grandi menzogne, delle fake news, delle bufale di cui è pieno il mondo.

Nel ’400 Lorenzo Valla dimostrò che la Donazione di Costantino, con cui la Chiesa legittimava il suo potere temporale, era un falso. Nel 1921 Philip Graves, corrispondente del Times, come racconta Carlo Ginzburg in un altro saggio del 2015 denso di intuizioni e riferimenti, Il filo e le tracce, vero, falso, finto,  sbugiarda i Protocolli dei savi di Sion(1903), fatti passare come gli atti di un convegno in cui gli ebrei pianificano di conquistare il mondo. Si tratta, seppur di uno dei libri più diffusi, di un apocrifo creato dai russi per alimentare l’odio nei confronti del popolo ebraico. Il testo in molte sue parti è un plagio di un libro dimenticato, apparso anonimo nel 1864 a Bruxelles, Il dialogo agli Inferi tra Machiavelli e Montesquieu di Maurice Joly.

Contro le fake news dei social Ginzburg invoca una filologia digitale e ricorda che il suo miglior amico nella ricerca della verità è un avvocato del diavolo – figura introdotta dalla Chiesa nelle cause di beatificazione nel Seicento – che gli propone domande scomode, dubbi, richiesta di prove e indizi.

“Per questo – dice con un sorriso mentre si congeda – ho accettato senza esitazioni la proposta dell’Università di Ravenna di tenere un ciclo di lezioni intitolato: Conversazioni con gli avvocati del diavolo. All’uscita una lunga coda aspetta l’autografo del maestro sul libro, segno di un’arrampicata emozionante lungo la parete delle verità.

 

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