Com’è possibile tanta violenza sulle donne? Una questione culturale, educativa, familiare, che si nasconde e cresce nei dettagli, nelle narrazioni, nei miti. Se Eva è una peccatrice vada all’inferno, se Penelope non aspetta Ulisse sia messa a morte, e qualunque donna non mostri le sue chat al compagno o al marito sia giudicata sospetta. Qualche mese fa Aurora, una giovane collega giornalista disse: “Voi uomini non sapete che cosa si provi ad essere guardate in un certo modo, a ricevere certi apprezzamenti o certi contatti fisici indesiderati, perché a voi non è mai successo. A noi succede più volte in un giorno. Noi sappiamo di cosa stiamo parlando, voi no”. Un’altra donna, Luisa, in un webinar sul tema confidò che lei non aveva paura di un uomo in particolare, dallo sguardo cattivo o dall’abbigliamento trasandato, ma di tutti gli uomini. I numeri sono importanti e poco conosciuti. Secondo i dati Istat il 31,5% delle 16-70enni, 6 milioni 788 mila, ha subito nel corso della propria vita una qualche forma di violenza fisica o sessuale: il 20,2%, 4 milioni 353 mila, ha subìto violenza fisica, il 21%, 4 milioni 520 mila, violenza sessuale, il 5,4%, 1 milione 157 mila, le forme più gravi della violenza sessuale come lo stupro, 652 mila, e il tentato stupro.
L’anno scorso, in occasione del 25 novembre, la giornata mondiale contro la violenza sulle donne, sono stati stati presentati a Venezia i risultati del progetto europeo Destalk, per combattere tutte quelle forme di controllo, diffamazione e oppressione online che altro non sono che una prosecuzione o un’anticipazione delle violenze fisiche. Cinque partner europei – European Network for the Work with Perpetrators of Domestic Violence, Fundación Blanquerna, Kaspersky, Una Casa per l’Uomo di Treviso e Regione del Veneto – in collaborazione con Coalition Against Stalkerware, hanno avviato in Italia una campagna di formazione, informazione e sensibilizzazione coinvolgendo la rete dei centri antiviolenza D.i.Re. e la rete dei centri per uomini autori di violenza Relive. Il progetto ha realizzato dal 2020 al 2022 una importante azione trasversale di formazione, con un corso e-learning rivolto a oltre 300 professioniste e professionisti dei servizi antiviolenza e 6 workshop online a cui hanno partecipato operatrici dei centri antiviolenza, operatrici e operatori dei centri per uomini autori di violenza, forze dell’ordine e altre istituzioni interessate al tema.
“Il trend delle donne che denunciano le violenze è in crescita costante”, racconta Laura Miotto responsabile dei centri antiviolenza Stella Antares.
È l’ultimo giorno di febbraio, dalle finestre della Casa delle associazioni di Montebelluna entra una luce che annuncia la primavera. Laura ha iniziato la sua carriera con una tesi sulla violenza di genere, il servizio civile presso la questura di Mestre e la creazione dell’associazione di promozione sociale Liquidambar, un nome particolare, quello di un albero dalle forme cangianti, a indicare la molteplicità dei percorsi e delle tonalità emotive che s’incontrano lungo i cammini dell’impegno sociale.
“Non credo siano aumentati i casi di violenza – prosegue Laura – è cresciuta la consapevolezza delle donne grazie ad una maggiore informazione, alla diffusione capillare dei CAV, centri antiviolenza e al lavoro in rete con le forze di polizia e il pronto soccorso al quale dal 2018 al 28 febbraio 2023 in provincia di Treviso si sono rivolte 3600 donne, una su tre vittima di violenza. I sanitari in questi anni sono stati formati per riconoscerle e prestare loro non solo l’assistenza sanitaria ma accoglienza e protezione. C’è la donna che arriva con ferite da taglio e dice che se l’è fatte tagliando il pane, o quella “scivolata” sulle scale o “inciampata” nel tappeto, l’85 % cento raggiunge il pronto soccorso insieme ai bambini. Il medico attiva la rete territoriale delle forze di polizia, dei servizi sociali, dei centri antiviolenza e nei casi più gravi procede a un ricovero fino a 72 ore in attesa della messa in protezione.
Sono sempre di più le donne che chiamano direttamente il nostro numero, anche signore di sessant’anni – quest’anno ne abbiamo ospitate quattro – e in alcuni casi di ottanta, che hanno subito per una vita violenze fisiche e psicologiche “in nome della famiglia”.
Le storie che incontriamo da un lato si assomigliano, spesso sono donne gelate dalla paura, si siedono senza togliersi il cappotto stringendo a sé la borsa, quasi con la voglia di scappare, dall’altro ognuna segue un percorso, un progetto diverso.
Dal 2015 nei nostri centri di Montebelluna, Vedelago, Asolo, Valdobbiadene, Pieve di Soligo, abbiamo incontrato più di 600 donne: c’è chi denuncia, chi accetta di essere messa in protezione nelle case rifugio, chi si ferma e non viene più ai colloqui, chi segue un corso e trova lavoro. Il tema dell’autonomia lavorativa e abitativa è naturalmente cruciale per emanciparsi, purtroppo non sempre abbiamo risorse sufficienti per sostenere le donne che si rivolgono a noi, viviamo di fondi regionali ma non bastano; l’attività dei CAV dovrebbe essere finanziata con regolarità e prevedere fondi speciali, per esempio per le signore non più inseribili nel mondo del lavoro”.
Mentre parliamo arrivano le colleghe di Laura, alle tredici inizia la riunione d’equipe in presenza e online: c’è Isabella che si occupa dei progetti di sensibilizzazione nelle scuole, Mirella responsabile delle case rifugio, Nadia per l’orientamento al lavoro, Claudia tirocinante, Luisa psicologa, Chiara responsabile dei centri per gli uomini maltrattanti. Resta qualche minuto per parlare di Com’eri vestita, una mostra della Cooperativa Cerchi d’acqua di Milano che gira l’Italia esponendo una serie di capi d’abbigliamento abbinati a cartelli che raccontano storie di violenza e femminicidi: “Ero a scuola, ero una ragazza introversa e silenziosa. Mi vestivo con maglioni e pantaloni larghissimi, almeno due taglie più grandi, mi nascondevo ed era quello che volevo. Quando sono andata in bagno lui mi ha seguita, ma non me ne sono accorta subito, mi ha violentata e mi ha lasciato per terra nel bagno della scuola”. Del film Ti do i miei occhidi Iciar Bollain che scava nella relazione tossica di una coppia in cui lei non riesce a tagliare i ponti con il marito violento. Delle iniziative per l’8 marzo, come lo spettacolo teatrale Scioperina al teatro Accademico di Castelfranco, per una raccolta fondi per l’allestimento delle stanze rosa negli ospedali di Castelfranco e Montebelluna; come la mostra Phaino, dal buio alla luce, foto di Giulia Zandarin, a Giavera del Montello, che inaugura il 10 marzo e nella quale Elisabetta Ferraro, seguita dal Centro Stella Antares, racconta la sua rinascita dopo anni di violenze. “Ce l’ho fatta – inizia Elisabetta con voce solida nella sala consiliare di Giavera del Montello sbiancata dalla luce fredda dei neon. Sono sopravvissuta anche a me stessa, perché più di qualche volta ho pensato di farla finita. Lui, che sembrava l’uomo più gentile e affettuoso del mondo, è cambiato con la nascita della prima figlia. Insulti e qualche schiaffo, poi le scuse e i regali. Vivevo la mia vita cercando di non farlo arrabbiare, mi sentivo sbagliata, in colpa. Mi aveva allontanato da tutti, dalla mia famiglia, per lui una famiglia di stupidi, dalle mie amicizie, lavoravo nella sua azienda senza essere pagata ma pagavo con i miei risparmi le sue spese. Nel 2013 riceve il primo ammonimento dal questore, seguono la denuncia e il decreto di allontanamento, ma il giorno dopo è già sotto casa. La mia vita diventa un inferno di botte e insulti: Non vali niente, Sei una puttana, Se mi denunci ti sfregio con l’acido, Ti faccio violentare da quattro marocchini. Lanciava le mie cose dalle finestra, tagliava i miei libri, strappava i miei vestiti, mi prendeva a calci e pugni. A un certo punto mi vidi con i suoi occhi, mi dissi che era vero: non valevo nulla. Mi ha salvata la musica, avevo sempre gli auricolari, e una bolla immaginaria, una sfera fantastica nella quale mi ritiravo per allontanarmi dal dolore. Nel 2017 un altro ricovero al pronto soccorso, una seconda denuncia per lesioni e il mio trasferimento in una casa protetta. Nessuno sapeva dove fossi. Non potevo uscire. È stata pesante. Lui ha una condanna definitiva a tre anni di reclusione e all’interdizione perpetua dai pubblici uffici ma in carcere non ci è ancora andato. Io oggi vivo con uomo che amo e che mi ama, e racconto la mia storia perché tutte noi donne vittime di violenza possiamo farcela, dobbiamo farcela, in ognuna di noi ci sono il coraggio e la forza necessarie per cominciare la nostra vera vita”.
Giavera del Montello, 10 marzo 2023